Scienza: vita e passione, tra ricerca e fantasia. Intervista a Maria Benedetta Donati

Donne meno adatte alle STEM: «Uno stereotipo da superare». Nel futuro, pari opportunità per ragazze e ragazzi che si avvicinano alle materie scientifiche. Ancora poche le figure femminili in ruoli apicali.

Di Benedetta Boni e Francesca Casirati

Scienziata, mamma e nonna. Incontrare Maria Benedetta Donati è una boccata di ossigeno. Parole come studio, evoluzione, futuro, famiglia e innovazione si mescolano in una chiacchierata lucida e leggera che pone l’accento su progetti di ricerca di grande valore per il progresso dell’umanità. Il racconto si avvicina più ad una riflessione filosofica che ad una disquisizione tecnica quando si ragiona di cultura come unicum e si superano i falsi confini tra materie scientifiche e umanistiche. È lo sguardo all’attualità poi a gettare luce sulla necessità di raggiungere una uguaglianza di genere anche nel mondo scientifico ed accademico e sui passi avanti ancora da compiere.

Com’è nata la sua passione per l’ambito medico-scientifico e la volontà di indirizzare la sua formazione e la sua carriera professionale in questa direzione?
Ho sempre avuto, fin dagli studi liceali, un’aspirazione a considerare la cultura un unicum non separato in materie scientifiche e umanistiche, tanto che, uscita dal liceo classico, mi sono dapprima iscritta a Lettere all’Università di Bologna, con un pensiero tuttavia all’ipotesi di un percorso di studi in Medicina, che mi appariva una scelta più coinvolgente dal punto di vista umano globale. Nel frattempo, proprio attratta da una proposta globale come poteva apparire, nel 1962, la nuova facoltà di Medicina della Università Cattolica, a numero chiuso ante litteram, con una presentazione da campus americano, mi sono lanciata a concorrere per quest’ultima. Tale entusiasmo è stato premiato e ho lasciato l’iscrizione a Bologna per migrare a Roma (molto più lontano da dove abitavo, la città di Forlì).  In questo incoraggiata da mio padre, per il quale studiare medicina aveva rappresentato in giovinezza un sogno non realizzato. Negli anni dell’università il feeling con la medicina si è via via evoluto, anche attraverso un processo di cross fertilization con un giovane che, per qualche imprevedibile disegno della provvidenza, o destino che dir si voglia, era pure arrivato a Roma dividendo i suoi pensieri tra lettere e medicina e poi aveva superato gli stessi test di ammissione. Con lui abbiamo condiviso e stiamo tuttora condividendo passione per la ricerca e vita da ben 59 anni.

Ci sono state figure che l’hanno ispirata o un momento specifico che l’ha spinta a decidere di dedicarsi alla ricerca scientifica a tempo pieno?
Verso la fine degli anni di Medicina, l’incontro che ci ha ulteriormente determinato nella scelta per la ricerca a tempo pieno: in occasione di uno stage estivo all’estero, abbiamo incontrato presso l’Università di Lovanio in Belgio il Professor Marc Verstraete, pioniere della ricerca sulle malattie dell’emostasi e della trombosi, fondatore di un laboratorio “top” nel mondo e simbolo vivente di come la ricerca scientifica e la fantasia del pensatore possano condurre a scoperte impreviste e particolarmente utili per la terapia di gravi malattie. Con il gruppo di questo nostro padre spirituale nella scienza abbiamo fatto non solo il dottorato (PhD) a Lovanio, appena dopo la laurea di Roma, ma anche iniziato una collaborazione che continua ancora oggi con le successive generazioni di giovani ricercatori nostri e di quella gloriosa università belga. Citerò, a simbolo di questo lungo sodalizio, che due anni fa, dopo la scomparsa a 93 anni del Professor Verstraete, l’Auditorium delle Conferenze dell’Istituto Neurologico Mediterraneo Neuromed (IRCCS) dove lavoriamo attualmente, in Molise, è stato formalmente intitolato al suo nome, con un evento scientifico di grande rilievo.

Ritiene che nel nostro Paese le ragazze e le donne incontrino maggiori difficoltà a intraprendere percorsi formativi e professionali in ambito scientifico rispetto ai coetanei?
Probabilmente il concetto di un accesso delle ragazze agli studi universitari simile ai loro coetanei è ormai abbastanza accettato. Sicuramente abbiamo oggi l’esperienza che le ragazze riescono a diplomarsi e anche a laurearsi con votazioni magari più alte dei ragazzi. Tuttavia, successivamente, se entrano nel percorso universitario o di ricerca, si fermano prima di raggiungere i gradi apicali. Una piccola minoranza sono infatti i direttori scientifici di istituti di ricerca (CNR o IRCCS) e altrettanto i rettori, o, come adesso si preferisce dire, le rettrici delle università. Tant’è vero che ha fatto molto scalpore ed è oggetto di molto interesse mediatico il fatto che qualche mese fa, dopo 700 anni, il rettore della Sapienza sia una rettrice: Antonella Polimeni.

Lei è madre di due figlie, entrambe medico, e nonna di quattro nipotini. Ci sono degli stereotipi che influenzano ancora le donne stesse?
Certamente ce ne sono molti, legati ad una tradizione e cultura familiare e sociale sui ruoli di genere che sono difficili da far evolvere in tempi non biblici, ma vorrei soprattutto soffermarmi sugli stereotipi che permangono sulla scelta del tipo di studi e che considerano le donne meno adatte alle discipline scientifiche, tecniche, ingegneristiche e matematiche (le cosiddette STEM). Questo pregiudizio, di cui talvolta le donne sono autrici e vittime al tempo stesso, in quanto manca loro l’autostima di credere che possono farcela, può essere particolarmente dannoso al tempo attuale dato che queste discipline sono anche alla base della digitalizzazione e dello sviluppo di varie metodologie di machine learning e intelligenza artificiale, tutti protagonisti dell’innovazione e del nostro futuro. Da molti anni faccio parte della commissione che valuta le candidate dell’iniziativa L’OREAL-UNESCO “For Women in Science” e debbo dire che abbiamo sempre cercato di distribuire l’assegnazione delle borse di studio tra le varie materie STEM, proprio per contribuire all’abbattimento di questo stereotipo.

Possiamo parlare di un “valore aggiunto” che l’essere donna può dare anche in campo scientifico?
Certamente, in quanto nella ricerca scientifica sono cruciali la curiosità, la fantasia, la resilienza (provare e riprovare senza scoraggiarsi), la flessibilità e la capacità di adattamento che sono doti tipicamente femminili. Anche le caratteristiche dell’autorevolezza al femminile sono accompagnate da uno spirito di servizio e di empatia che rende i rapporti umani più proficui anche in ambienti di grande competizione scientifica.

Quale messaggio si dovrebbe veicolare alle giovani di oggi?
Fare e cercare di realizzare i propri sogni senza troppo recriminare sul passato; il vittimismo non aiuta. Non sforzarsi di imitare gli uomini perché il rischio è che, invece di conquistare il potere, se ne acquisiscano i peggiori difetti e mirare, come ripete spesso la nuova rettrice della Sapienza che ho già avuto modo di citare poco fa, a “pari opportunità per pari capacità”.