Il ritorno del volto

Quanto sarà difficile togliere la maschera e tornare a mostrare il viso in pubblico? Partendo da Jung e raccontando la positività delle donne affette da minorazione visiva che continuano a truccarsi, Stefania Fortini, psicologa-psicoterapeuta e vicedirettrice del Polo Nazionale Ipovisione, svela la profondità del cambiamento indotto dalla pandemia

Di Tommaso Vesentini

La maschera comunica e nasconde la linea permeabile tra il sé reale e il sé ideale a cui spesso aspiriamo: su questo substrato simbolico si è innestata la pandemia. Durante il Covid la mascherina è divenuta cardine di un mondo al contrario, dove stare vicini è pericoloso e mostrare il viso genera sfiducia e distacco. “Togliersi la mascherina, per alcune persone, potrebbe non essere un passaggio facile o indolore – spiega Stefania Fortini, psicologa psicoterapeuta e vicedirettrice del Polo Nazionale Ipovisione –. Meglio accogliere ed accettare la propria esitazione e procedere per gradi”.

Cosa significherà togliere la mascherina e tornare a mostrare il viso in pubblico?

Per alcuni potrà essere un passaggio difficile: la mascherina ha indotto un profondo cambiamento sconvolgendo letteralmente le basi della relazione. Non sono tante le occasioni nella storia dell’umanità in cui la risposta al pericolo non sia stata avvicinarsi ma, al contrario, distanziarsi. Ci siamo abituati a vedere nell’altro una minaccia, adattandoci a misurare la distanza di sicurezza, a diffidare anche dei nostri cari e, cosa forse mai avvenuta prima, ad associare un viso nudo, non protetto, alla minaccia di un contagio. Non sarà facile tornare indietro. Anche perché la mascherina comunica mentre nasconde e, facendo questo, si inserisce in una tradizione simbolica antica e complessa quanto l’umanità.

Che significato hanno le maschere?

Secondo Jung la maschera rappresenta un filtro che l’uomo pone tra sé e gli altri, ma non va intesa solo come una mistificazione volontaria. La maschera è, il più delle volte, il ruolo che indossiamo al lavoro e in società. Non è falsa in sé, ma potrebbe rappresentare un’ideale di sé che, più o meno fortemente, ci condiziona e ci limita. Allo stesso tempo, la maschera è anche ciò che ci libera, come a carnevale, spogliandoci delle barriere imposte da noi stessi o dagli altri. La maschera è recitare “l’altro” pur rimanendo sé stessi. Una prigione, un rifugio o una liberazione, a seconda dei casi. È qui che si potrebbe insinuare il rischio di uno scollamento tra noi e la nostra immagine, quando non vi è consapevolezza dell’esistenza della maschera che indossiamo. Quando non siamo in contatto con il nostro vero “Sé” fatto di emozioni e aspirazioni, tendiamo inconsapevolmente a costruire delle maschere che rappresentano il sé ideale che portiamo avanti in modo rigido, che ci impedisce di accettarci per come siamo. Non stupisce, pertanto, che la maschera sia una zona di faglia tra piacere e dovere, tra ciò che una persona si obbliga ad essere e ciò che si concede di essere. Per capire l’impatto del Covid e delle mascherine sulla psiche bisogna capire che questo impatto non nasce dal nulla, ma si inserisce su un ganglio simbolico già cruciale di per sé.

Ma come si cala la mascherina anti-Covid in questo bagaglio simbolico?

Lo allarga aggiungendo la dimensione della difesa. Indossare la mascherina è stata una strategia di protezione che ha completamente invertito il rapporto fisiologico tra esseri umani. Nel farlo, però, la mascherina ha ritenuto gli attributi gemelli del nascondere e del comunicare, propri di tutte le maschere. La mascherina comunica il nostro grado di attenzione alla pandemia e ci permette di leggerlo negli altri, a partire dalla tipologia fino all’attenzione con la quale viene indossata. Contemporaneamente permette di nasconderci, ci solleva dalla necessità di sorridere e di sobbarcarci della fatica di comunicare e leggere le emozioni. Questa pandemia ci ha dato dolore e molta fatica. Ma per una parte non piccola della popolazione c’è stato una sorta di sollievo relazionale. Tornare a farsi vedere senza mascherina per alcune persone sarà più faticoso. Come ogni barriera, infatti, la mascherina contiene un forte elemento di protezione al quale faremo fatica a rinunciare.

Come iniziare il percorso per tornare alla normalità?

Il primo elemento è l’accettazione e la tolleranza. Verso gli altri e verso sé. Ognuno dovrà misurare il suo ritorno testando i confini della propria comfort zone. Questo significa che potremo vedere persone con la mascherina per molto tempo dopo anche la fine dell’obbligo. Forse nei luoghi pubblici, come treni e aerei, manterranno questa nuova abitudine. Forse saremo noi i primi a portarla ancora per un po’. Sarà interessante osservare cosa avverrà nel tempo e che forma prenderà il cambiamento.

Quale strategia per ri-avvicinare?

Il trucco potrebbe favorire sicuramente il ri-avvicinamento. Il trucco può nascondere e può comunicare come la maschera. Cosa comunichi dipende dai singoli casi e culture. A livello psicologico truccarsi permette di valorizzare alcune parti di noi – fisiche e caratteriali – e minimizzarne altre. Ma, certamente, la cosmesi non è un elemento puramente estetico e non lo è mai stato nei secoli. Oggi può essere un messaggio di grande positività. Può abbassare le difese e rendere più facile l’avvicinamento. In questo caso non è tanto un mettersi in mostra, quanto un mettere a proprio agio. Ancora più importante è un segnale di cura del sé, di valorizzazione, di uscire senza paura. Nella mia esperienza clinica ho visto tante persone ipovedenti che, pur avendo difficoltà a vedersi allo specchio, hanno continuato a truccarsi.

Che significato ha per le persone con minorazione di vista truccarsi?

Nonostante la grave perdita di una parte di sé, la vista, e la limitazione dell’autonomia, hanno deciso che non avrebbero rinunciato a prendersi cura di sé investendo sui propri punti di forza. Questo è la grande lezione che offre anche la riabilitazione visiva. Non si può recuperare quanto è andato perduto, ma si può riconquistare l’autonomia e la libertà. Per farlo bisogna partire da sé, dal proprio dolore e dall’accettazione; solo allora si può costruire un percorso che porti fuori. Ancora una volta non è una questione solo di vedere, ma di sentire, ed è questa la reale esperienza che vivo quotidianamente al Polo Nazionale Ipovisione.